LA MEMORIA - martedì 10 dicembre 2024
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A Palazzo Cesi, palazzo cinquecentesco in via degli Acquasparta, a Roma, sede della Procura Generale Militare, affluirono, dopo la Liberazione, i fascicoli relativi a centinaia di crimini compiuti dai nazifascisti, nel periodo 1943 – 1945, ai danni di vittime civili.
Su quei fascicoli erano annotati i nomi delle vittime, i nomi degli assassini, le località dei crimini. Un’istruttoria per ogni fascicolo, un processo per ogni istruttoria. Se ne sarebbero dovute occupare le Procure Militari Distrettuali, destinatarie istituzionali di quelle carte.
Tutto invece rimase sepolto in quel palazzo. Non ci furono istruttorie, non si celebrarono processi. Tutto rimase avvolto nel silenzio: prove, testimonianze, nomi.
Nel maggio del 1994, per caso, a Palazzo Cesi, fu ritrovato un armadio, protetto da un cancello, chiuso a chiave, con le ante rivolte verso il muro. Era l’Armadio della Vergogna; conteneva un grande registro, con ben 2273 voci, su cui era annotato tutto quel che conteneva o aveva contenuto: 695 fascicoli; in 415 i nomi dei colpevoli.
Al numero 1 l’eccidio delle Ardeatine, con i nomi di Herber Kappler, Erich Priebke, e altri assassini che, grazie a quell’armadio, godettero di 50 anni di libertà. E così per i nazifascisti di Sant’Anna di Stazzema. Di Marzabotto, di Fivizzano, ecc.
Fu la ragion di Stato ad imporre l’occultamento di quei fascicoli. La motivazione fu quella della guerra fredda. Nel mondo suddiviso in due blocchi, la nuova Germania doveva entrare nella Nato, come baluardo contro l’avanzata sovietica. Si preferì tacere i crimini commessi dal nazismo ed aprire una nuova pagina.
Ma ancora oggi sono troppe le domande rimaste aperte, come ferite profonde nell’intera nazione: chi dette l’ordine dell’occultamento? Chi si assunse quella drammatica responsabilità? Chi chiederà perdono a nome dello Stato per questa colossale ingiustizia?