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IL PARCO - giovedì 5 dicembre 2024 

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    Oggetti nella teca-clicca per vedere l’interno della chiesa

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    L’ingresso a Sant’Anna- clicca per vedere la chiesa




Poesie e brani dedicati a Sant'Anna e alla Resistenza



“Ode a Kesselring” di Piero Calamandrei

Processato nel 1947 per crimini di Guerra (Fosse Ardeatine, Marzabotto e altre orrende stragi di innocenti), Albert Kesselring (1885-1960), comandante in capo delle forze armate di occupazione tedesche in Italia, fu condannato a morte. La condanna fu commutata nel carcere a vita. Ma nel 1952, in considerazione delle sue "gravissime" condizioni di salute, egli fu messo in libertà. Tornato in patria fu accolto come un eroe e un trionfatore dai circoli neonazisti bavaresi, di cui per altri 8 anni fu attivo sostenitore. Pochi giorni dopo il suo rientro a casa Kesselring ebbe l’impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva nulla da rimproverarsi, ma che - anzi - gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i 18 mesi di occupazione, tanto che avrebbero fatto bene a erigergli. un monumento in suo onore. A tale impudente ed offensiva affermazione rispose Piero Calamandrei (1889-1956), giurista, docente universitario e Padre Costituzionalista, con una famosa epigrafe (recante la data del 4.12.1952, ottavo anniversario del sacrificio di Duccio Galimberti), dettata per una lapide "ad ignominia", collocata nell’atrio del Palazzo Comunale di Cuneo in segno di imperitura protesta per l’avvenuta scarcerazione del criminale nazista.

LO AVRAI
CAMERATA KESSELRING
IL MONUMENTO CHE PRETENDI DA NOI ITALIANI
MA CON CHE PIETRA SI COSTRUIRA’
A DECIDERLO TOCCA A NOI

NON COI SASSI AFFUMICATI
DEI BORGHI INERMI STRAZIATI DAL TUO STERMINIO
NON COLLA TERRA DEI CIMITERI
DOVE I NOSTRI COMPAGNI GIOVINETTI
RIPOSANO IN SERENITA’
NON COLLA NEVE INVIOLATA DELLE MONTAGNE
CHE PER DUE INVERNI TI SFIDARONO
NON COLLA PRIMAVERA DI QUESTE VALLI
CHE TI VIDERO FUGGIRE

MA COL SILENZIO DEI TORTURATI
PIU’ DURO D’OGNI MACIGNO
SOLTANTO CON LA ROCCIA DI QUESTO PATTO
GIURATO FRA UOMINI LIBERI
CHE VOLONTARI SI ADUNARONO
PER DIGNITA’ NON PER ODIO
DECISI A RISCATTARE
LA VERGOGNA E IL TERRORE DEL MONDO

SU QUESTE STRADE SE VORRAI TORNARE
AI NOSTRI POSTI CI RITROVERAI
MORTI E VIVI COLLO STESSO IMPEGNO
POPOLO SERRATO INTORNO AL MONUMENTO
CHE SI CHIAMA
ORA E SEMPRE
RESISTENZA

P. Calamandrei








Piero Calamandrei

Discorso ai giovani sulla Costituzione nata dalla
Resistenza.

« Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la
nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle
carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque
è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o
giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione. »

Milano, 26 gennaio 1955



Appello di Pace
di Mario Luzi


E’ questo il cinquantesimo anniversario dell’eccidio di Sant’Anna, un episodio così efferato che non vorremmo imputare ad uomini, cioè ad essere umani. Ma uomini, sia pure stravolti da aberranti dottrine e dalla pratica devastatrice della guerra e del genocidio, furono i soldati germanici che lo perpetrarono; creature umane indifese i cinquecentosessanta, per lo più donne, vecchi e bambini che lo subirono nelle loro carni. Resta a cinquanta anni di distanza un episodio umano, da iscrivere malauguratamente nella storia umana, e dovrà restarci a lungo, fin tanto che la storia umana avrà un senso e non sarà dilavata dal tempo e dalla geologia del pianeta. Dovremo ancora in quanto uomini addossarci quel crimine che la nostra mente e la nostra coscienza umana si rifiutano di riconoscere come proprio. Lo hanno commesso uomini su altri uomini, nostri fratelli gli uni e gli altri, i carnefici e le vittime: dobbiamo rassegnarci a questa angosciosa irreversibilità dei fatti avvenuti e alla anche più angosciosa conferma che nell’universo dell’uomo si annida un così orribile potenziale di perfidia, di brutalità e di morte, a cui, sola contrapposizione dignitosa, rispondono l’innocenza ed il sacrificio.
Oggi Sant’Anna, le sue immagini, le sue memorie promanano soprattutto una immensa pietà. Costituiscono per tutti una tra le più intense capitali del dolore, per alcuni un santuario. E’ proprio in virtù di quella pietà che in noi l’orrore perdura oltre ogni intento di rimozione ma il giudizio perde il suo truce rancore ed il pensiero della vendetta appare inadeguato, profano. Eventi come il 12 agosto 1944 soverchiano la nostra misura non hanno rivalsa né riparazione possibile: niente di umano potrebbe pareggiare il conto.
Ma a riscattarci è se mai il prodigio della vita morale che risorge e, fortificata dalla caduta e dalla vergogna, grida: non si ripeta mai più. E non si limita a gridarlo, ma lo vuole, lo pretende, lo esige universalmente prima come promessa, poi come patto sancito, infine come convincimento profondo e irreversibile.
Mentre il mondo lontano e prossimo rinnova troppo spesso le scene di devastazioni, di carneficine e di scempi, Sant’Anna con l’umile autorità che le viene dal suo martirio chiama tutti gli uomini a una definitiva conversione alla pace, alla dignità del colloquio, alla ricerca costante di una possibile armonia.
Il cuore degli uomini sia pari alla enormità del luttuoso retaggio e alla grandezza della speranza

18 giugno 1994



Appello di Pace- Drammatico richiamo
di Mario Luzi


Quanto dieci anni or sono, nel cinquantenario dell’eccidio di Sant’Anna, fu detto come esecrazione, sgomento, sconfessione umana del mostruoso crimine commesso e subito purtroppo da uomini, da creature umane; e il richiamo che si levò – e parve improrogabile – alla conversione dell’uomo alla civiltà dei pacifici confronti risuonano inascoltati o sono rimasti ignorati in molte parti del mondo.
La violenza e l’arbitrio hanno ancora più volte dettato legge e continuano a farlo. La tracotanza dei potenti ha abusato senza scrupolo della forza seminando lutti e sconvolgimenti. Non si può dire tuttavia che l’indifferenza morale e il cinismo politico siano rimasti senza una dovuta risposta nella coscienza dei popoli che frattanto è cresciuta e si è fatta adulta e sicura. L’insorgenza dell’umanità è stata forte e vistosa, il grido di pace è stato potente e dilagante. In tutto il mondo lo sventolìo delle bandiere della pace che garrivano anche al vento di un potente risveglio apostolico ha fatto apparire anacronistica e ottusa l’azione delle armi che frattanto procedeva in un illusorio trionfalismo, contraddetto ben presto delle sue conseguenze laceranti e sanguinose.
Si stupisce che occorrano ulteriori riprove: la guerra non risolve ma complica e moltiplica i problemi; rinnova i disastri, gli scempi, i genocidi che noi cittadini delle maestose e tranquille Apuane abbiamo patito a Sant’Anna e non riusciamo a espellere, come talora vorremmo, dalla memoria individuale e comune e neppure a mitigare nella nostra passione. Essa tuttavia non ci deprime, ma anzi rafforza la nostra voce nell’appello che dalla nostra devastata comunità rinnoviamo per la pace. Siamo confortati dal progredire nonostante tutto impetuoso di questa aspirazione tra le genti della terra. Essa è fondata sul sacrosanto diritto dell’uomo a gestire umanamente la sua umanità. Sant’Anna, ancora una volta l’ecatombe dei tuoi figli sanguina come un ammonimento ma tinge di rosso vivo l’orizzonte incerto della speranza.
25 Aprile 2004




Sant’Anna di Stazzema
di Don Janni Sabucco

Ci sono giorni della memoria
che non entrano in nessun astuccio.
Non sono amuleti
ma una colonna di fumo e di lezzo.
Se è vero che il verme tagliato a metà
perdona il vomere perchè diventa due,
uomini, donne e bambini di S. Anna
siete raddoppiati
e la giostra degli anni non vi ha spenti.
Non per il nome di strade
stampate di passi e di uggia
che la Versilia vi ha dato
ma perchè il vostro ossario
è la cima più alta dei monti apuani.
Dopo abbiamo attraversato stagioni
in una terra libera e più giusta
ma iniziata da quel 12 agosto di Attila.
Crescerete di statura anche nel futuro
sappiamo che
la prima creatura di Dio è stata la luce
e il rogo nel solleone
sulla piazza della chiesa
è luce pasquale
e mai nascerà il muschio sopra di voi
che attendete in 560
sotto un’unica pietra





“Non c’è vita senza libertà”
di Elena Bono


Sant’Anna di Stazzema. Marzabotto. Le Fosse Ardeatine.
Tutte le tappe della nostra Via Crucis nazionale.

Tutte spade conficcate nel cuore delle donne che quando non hanno pagato con la vita hanno pagato con prezzo senza fine.

Vedo l’Italia come una grande Maria Addolorata con le sette spade conficcate nel cuore così come l’ho veduta nel mio paese natale quando segue il Figlio Morto nella processione del Venerdì Santo.
Anche noi, nel nostro piccolo in Liguria, abbiamo avuto paesi bruciati, volti passati per le armi con divieto di seppellirli e anche qui le donne sono accorse con loro pericolo a porgere gli ultimi conforti ai moribondi.
Anch’io ho visto dieci uomini andare alla fucilazione e mi è giunto a distanza il loro grido. Qua e là abbiamo avuto i nostri fucilati, i nostri deportati, i nostri torturati.
E qui a Chiavari abbiamo avuto uno dei fasci più crudeli e sanguinari che abbiamo funestato la Liguria, pari in ferocia al fascio di Alessandria. Il pianto per i nostri morti si unisce al vostro come al vostro si unisce il nostro amore per la pace e soprattutto per la libertà dei popoli.
Non c’è vita senza libertà.
Senza libertà sarebbe come vivere senza l’aria e la lotta per la libertà non finisce mai, perché non è soltanto una lotta contro altri. Ma una lotta interiore per liberarci di quello che Max Picard chiamava “Hitler in noi” cioè lo spirito di sopraffazione, di approvazione, di intolleranza.
In questa fraternità vi abbraccio e vi sento vicini e sempre presenti nel lavoro che continuo considerandolo una battaglia, una atto di fedeltà verso quelli che sono morti per restituirci quella libertà che è la dignità e il senso stesso della vita umana.

Chiavari, 18/07/2007
Elena Bono







Ricordo di nonno Ciro

A un certo punto della mia vita ho avuto una rivelazione - non ricordo il giorno esatto, né quanti anni avessi, ma posso supporre sia avvenuta prima dell’accesso alla scuola elementare - che io, Ciro Bertini, mi chiamavo come mio nonno: nome e cognome. Con l’aggravante che eravamo nati entrambi nella stessa città, Viareggio, e lo stesso mese dell’anno, maggio. Allora non mi passò neanche per l’anticamera del cervello che mio padre e mia madre si fossero in qualche modo posti il problema, avendo addirittura programmato tutto questo; piuttosto lo considerai un segno del destino, indice di un forte legame imposto da forze superiori tra me e questo signore. Dico così – “questo signore” – perché per me tale era: infatti io non solo non potevo parlarci, non essendo lui vivo, ma se anche avessi incontrato per strada qualcuno che spacciandosi per lui mi avesse detto: “Piacere, Ciro Bertini” non sarei stato in grado di smentirlo, dal momento che io non l’avevo mai conosciuto. Certo, questo signore che si fosse presentato come mio nonno avrebbe dovuto almeno vagamente assomigliare a quello che avevo visto parecchie volte in fotografia. Anche se lì sembrava tutto fuorché un nonno. Intanto perché era giovane, poco più che ventenne; e tra i folti capelli acconciati all’umberta non c’era neanche un ciuffo grigio. Poi perché dietro a degli occhialetti dalla montatura rotonda, più da studente modello che da attempato professore, c’era lo sguardo intenso quanto sognante di chi è convinto di avere una vita intera davanti a sé. Infine perché quelle foto lo ritraevano con due tipi di abbigliamento, che mi risultavano entrambi assai stravaganti: con scarponi da montagna e pantaloni alla zuava e con la divisa da ufficiale dell’esercito italiano. Fortunatamente, in queste occasioni, avevo quasi sempre accanto mia nonna Didala, sua moglie, pronta a cogliere ogni mia esitazione su una singola immagine per iniziare a raccontare degli episodi della vita di Ciro, così vividi - pieni com’erano di particolari – da sembrare accaduti ieri. Ma la cosa più straordinaria era che questi fatti narrati dalla nonna erano al tempo stesso avventurosi, dato che erano capitati a persone giovani che si ritrovavano a vivere delle circostanze per la prima volta, e esemplari, nel senso che contenevano quasi sempre un insegnamento. E, nonostante la vicenda finisse male, con la morte ingiustamente prematura del nonno (oltretutto assai violenta), e in qualche momento la voce di lei venisse rotta dal pianto, mi sentivo rassicurato e pieno d’orgoglio quando invariabilmente concludeva: “A volte non so se sia stato giusto che il nonno abbia sacrificato la sua vita - 24 anni sono troppo pochi per morire – ma so per certo, e tu non lo dimenticare mai, che l’ha fatto per noi. Per tutti noi che siamo vivi: per darci un mondo migliore”. I cattivi che lo avevano ucciso - gli assassini - si chiamavano “tedeschi”. Si trattava di soldati stranieri, che parlavano una lingua tremenda fatta di suoni gutturali e incomprensibili, tutti espressi con il tono di chi deve sempre e solo impartire ordini. Li avevo visti all’opera in qualche film che mi aveva messo un po’ di tensione; ma poi il film finiva e mi dicevo che tanto era tutto finto. Invece, quando me ne parlava la nonna mi accorgevo che erano esistiti realmente, lei e il nonno e tanti altri italiani ci avevano avuto a che fare, e anche se mi rassicurava dicendomi che ora non ce li avevamo più in casa, non si poteva mai sapere. Per dire, loro erano stati degli “invasori” che così, di punto in bianco, avevano occupato il territorio italiano. Ora, durante l’estate, c’erano frotte di tedeschi che venivano al mare: chi poteva garantirmi che questi “bagnanti” che comunicavano tra loro come membri della Wermacht non cadessero preda della tentazione di impossessarsi di nuovo della mia Viareggio? Così facevo quanto in mio potere: quando giocavo da solo a soldatini l’esercito tedesco veniva sparigliato dopo pochi secondi; e cominciai a fare un tifo sfrenato a favore di tutte le nazionali di calcio che affrontassero quella tedesca. E a sperare che ogni atleta tedesco, in qualunque disciplina, fosse sonoramente sconfitto da chicchessia. “Voi avete ucciso mio nonno e io vi odierò per sempre. Tutti quanti siete!” Finché un giorno la nonna mi spiegò una cosa incredibile, a cui fino allora non avevo mai pensato: che questi calciatori, così come i nuotatori e i saltatori in alto, erano sì tedeschi ma erano giovani. Come tali non avevano mai invaso l’Italia. Tutt’al più potevano averlo fatto i loro genitori e non era giusto che le colpe dei padri ricadessero sui figli. Non solo ma aggiunse anche che, se proprio volevo saperla tutta, i tedeschi per entrare in casa nostra, in Italia, non è che avessero sfondato la porta, ma che gliela aveva tenuta ben spalancata il capo dell’Italia, Benito Mussolini. Un dittatore che se non eri d’accordo con lui o andavi dritto in prigione oppure venivi picchiato con certi bastoni di legno dai suoi squadristi, degli omacci vestiti tutti di nero. Qui la situazione si faceva, per l’appunto, nera. I nemici da combattere stavano diventando un po’ troppi. E poi un conto erano i tedeschi che, se anche capitava che li avessi visti dal vivo con tanto di sandali portati coi calzini, abitavano pur sempre in Germania, un posto in cui avrei potuto evitare di recarmi; un altro erano questi fascisti che vivevano in Italia: magari ce n’erano anche uno o due a Viareggio, pronti a materializzarsi dietro a qualche cespuglio in pineta e a riempirti di bastonate. Forse era meglio la prigione, anche se dietro le sbarre della Torre Matilde m’immaginavo tutto un via vai poco piacevole di tarponi. Ma la nonna mi spiegò che Mussolini era morto, che in Italia c’era la democrazia e che oggi chiunque può manifestare liberamente le proprie idee, come aveva sempre voluto il nonno Ciro. Disse anche che i fascisti non c’erano più, che c’erano rimasti solo i figli dei fascisti ma che anche loro non portavano le colpe dei padri. Poi, per divertirmi, mi raccontò di un bello scherzetto che il nonno Ciro e alcuni suoi amici fecero un giorno ai fascisti. Saputo che in piazza Mazzini sarebbe stata inaugurata una lapide inneggiante il regime, Ciro e alcuni altri studenti si munirono di un bel po’ di uova, ci fecero un buchetto, ne trangugiarono il contenuto (perché allora il cibo non si sarebbe mai sprecato inutilmente) e le riempirono d’inchiostro nero. Dopodiché attesero la notte e lanciando le uova contro la lapide la imbrattarono tutta. Fu un atto di notevole coraggio, perché – mi spiegò la nonna – dopo una certa ora di notte scattava il coprifuoco in città e se venivi scoperto fuori passavi brutti guai. Senza contare il rischio di essere visti da qualcuno che avrebbe potuto fare la spia il giorno dopo. A impressionarmi molto fu il fatto che Ciro, al momento di compiere questa bravata, fosse ancora uno studente: anche se si trattava dell’università, a me che ormai frequentavo anch’io la scuola me lo faceva avvertire come particolarmente giovane. Fu una delle prime volte in cui mi chiesi se al suo posto avrei avuto lo stesso coraggio. Tanto più che la nonna mi aveva sempre detto che, al contrario di lei che era figlia di un pescatore, Ciro era di buona famiglia, essendo suo padre un avvocato tra i più facoltosi di Viareggio, uno dei primi ad avere l’automobile. L’idea che avevo io delle persone ricche derivava dalla lettura di Topolino: il massimo nella vita era essere come Paperone, chiuso nel suo deposito-bunker a contare i propri soldi. Mi chiedevo: se era ricco al nonno Ciro non conveniva di più starsene in casa a studiare per diventare avvocato come suo padre e mandare a correre rischi quelli più poveri, ché tanto non avevano nulla da perdere (i Bassotti nel frattempo non sarebbero certo andati a derubarli)? La nonna mi chiarì che Ciro amava troppo la libertà per farsi questi scrupoli. E che voleva la libertà per tutti, non solo per se stesso. E che perché fossero liberi tutti gli uomini occorreva che non ci fossero i ricchi e i poveri, ma che avessero suppergiù tutti gli stessi soldi. Dentro di me – ma senza dirlo alla nonna – mi dissi che forse era stato proprio per questo che Ciro l’aveva sposata: per appianare la disuguaglianza sociale esistente tra le loro due famiglie. Anche se, a giudicare dalla foto del giorno del loro matrimonio, sembravano le persone più felici della terra. Ciro sembrava molto soddisfatto e orgoglioso della giovane donna che portava a braccetto; ma mentre lui non lo conoscevo che così, poco più che ventenne, non potevo credere che quella ragazza così bellina che si schermiva sotto la veletta fosse proprio la nonna. Non che la nonna ora fosse brutta, ma molto diversa quello sì. Per esempio uno sguardo così gaio e spensierato non glielo avevo mai più visto. Quel giorno Ciro indossava la divisa, perché allora era così: tu magari studiavi bello tranquillo giurisprudenza a Pisa e, da un giorno all’altro, il dittatore decideva di entrare in guerra e ti ritrovavi a fare il tenente di stanza a Nola con giovane moglie a carico. Ma poteva anche capitarti di peggio: che partisse una terribile campagna di Russia e rischiassi di doverci andare di corsa. Tu, cresciuto nel clima mite della Versilia, ritrovarti male equipaggiato tra il vento gelido e i campi di neve. A quel punto Ciro si disse che non se ne parlava nemmeno – scherziamo? Abbandonare la moglie appena sposata: quale razza di principe azzurro farebbe mai una roba del genere? – e pensò di spararsi un colpo di rivoltella su un piede. Più tardi decise di ripiegare su qualcosa di meno pericoloso: una martellata che gli rompesse un ginocchio. Sarà, ma a me sembravano una cosa più pazza dell’altra. Certo che anche “Fischia il vento, infuria la bufera, scarpe rotte eppur bisogna andar” non era una prospettiva meno folle. Rotta la rotula riuscì a evitarsi la Russia e così decise assieme a mia nonna di fabbricare mio padre. Devo dire che ci misero un bel po’ a farlo nascere, praticamente nove mesi, ma d’altra parte c’era la guerra e non è che potessero lavorare di buona lena a questo progetto proprio tutti i giorni. Alla fine mio padre nacque il 2 settembre 1943 e lo chiamarono Quinto. O: anche lui si chiamava Quinto Bertini proprio come suo nonno. Allora era proprio un vizio della mia famiglia! Poi, pochi giorni dopo, il dittatore sparì. Il nuovo capo, un certo Badoglio, firmò l’armistizio e i soldati tornarono a casa. Ma Ciro se la godette ben poco, perché presto diventò partigiano. A quanto mi riuscì di capire dalla nonna abbandonarono la loro abitazione in città e si spostarono nell’entroterra. Mi sa che stavano tipo all’aperto, in giacigli che cambiavano di volta in volta per evitare di essere acciuffati. C’era anche un prete buono che li aiutava e li nascondeva. In pratica, lei e il figlioletto stavano in collina; Ciro invece faceva il pendolare. Un po’ come mio padre ora, che, mentre noi stavamo a Viareggio, partiva la mattina per andare a lavorare a Firenze e ritornava la sera; così Ciro faceva la spola tra la montagna e la collina. Ma mentre mio padre prendeva il treno, Ciro era costretto a farsela a piedi. I pericoli che correvano erano enormi e quotidiani, eppure la nonna mi diceva che era stato lo stesso un periodo molto bello, perché c’era mio padre piccino e lei e Ciro si amavano moltissimo. Io le credevo, anche perché quando me lo diceva le si illuminavano gli occhi, ma al posto suo sarei morto di paura. Finché venne il 28 agosto 1944 e la cosa terribile accadde. Che Ciro assieme a due suoi compagni partigiani scendesse in perlustrazione a valle per vedere se era possibile spostare l’intera formazione. Che si imbattessero nei tedeschi che cominciarono a sparargli. Che i tre non potessero rispondere al fuoco perché erano disarmati. Che Ciro cadesse a terra colpito. Non so se senza un lamento, so che non posso ascoltare “La guerra di Piero” senza immaginare Ciro senza vita tra mille papaveri rossi. Da quella prima volta avrò chiesto cento volte alla nonna di raccontarmi esattamente la dinamica dell’agguato come altri si facevano recitare “Cappuccetto Rosso”: ma in questa storia non c’era nessun lieto fine. Ciro ogni volta giaceva riverso a terra, crivellato di colpi. Il particolare che mi ossessionava di più era quello dei suoi occhiali rotti, raggiunti da un colpo di arma da fuoco. Me lo immaginavo che poteva ancora salvarsi, scappare in una qualche direzione, ma che, miope, privato della funzionalità degli occhiali, fosse andato diritto in braccio ai colpi del nemico. La nonna conserva in un cassetto questi occhiali rotti: e vi assicuro che, a 65 anni di distanza, sono ancora qualcosa di straziante. Così come lo è l’immagine della neo-vedova accompagnata sul posto che riconosce il corpo esanime dell’amato: avete presente le urla folli in “Roma città aperta” quando la protagonista insegue disperata la camionetta che le porta via il marito e poi cade sopraffatta per la strada? Io ho sempre sovrapposto al volto di Anna Magnani quello di mia nonna. E ogni volta tornavo a farmi spiegare dalla lei come mai Ciro e i suoi compagni fossero disarmati. Dice: per evitare che i tedeschi per rappresaglia colpissero la popolazione civile. Per anni è stata una motivazione che per me non significava proprio nulla, una roba astratta che mi facevo ripetere incredulo, parendomi una sfida inutile e improba a un destino cieco e baro. Credo di averne capito per la prima volta intimamente il significato nell’estate 2008, quando mia nonna ha scritto una lettera aperta al regista americano Spike Lee, pregandolo di non appiattirsi sulla tesi della strage di S. Anna di Stazzema come conseguenza di un comportamento improvvido da parte dei partigiani della zona. E forse ancor più quando l’ho vista, serena nonostante l’inesperienza televisiva, raccontare la sua verità su Raiuno. Chissà: forse, in quella circostanza, la detenzione di armi da fuoco avrebbe potuto salvare la vita di Ciro, ma metterne a rischio numerose altre. E questo rischio lui non volle correrlo. Per questo, più che un eroe, cominciai a pensarlo come una persona per bene. Tanto per bene da pensare che potesse esserci qualcosa di più importante oltre alla mera salvaguardia di se stesso e della propria cerchia familiare: quella libertà senza la quale nessuno - né la moglie, né il figlio, né i nipoti di là da venire – può nemmeno provare a essere felice.


Ma oggi che sono un adulto, che ho il contrario degli anni a cui è morto Ciro (42 e lui 24), che ho quasi l’età in cui lui sarebbe diventato mio nonno se solo fosse stato vivo (46), mi sentirei venire meno a un dovere se, concludendo, non facessi un riferimento all’attualità: alla legge in discussione in parlamento che vorrebbe equiparare i caduti della Resistenza a coloro che scelsero di battersi per la Repubblica di Salò. Sono anni che, da più parti, si cerca di screditare il valore della lotta partigiana, sminuendone la portata militare o, addirittura, relegandola a una localistica resa dei conti. Guardate che non è un fenomeno nuovo – che nasce, per intendersi, con Alleanza Nazionale al governo o con i libri di Giampaolo Pansa – se è vero che già in “Una giornata con Dufenne”, romanzo del 1968 di un grande viareggino, Mario Tobino, (e mi fa davvero piacere che il “largo Ciro Bertini” si origini dal “Viale Tobino”), si potevano leggere queste parole: “Un periodo i partigiani sono considerati i benefattori della patria; subito dopo i nostri connazionali tutti uniti li insultano e li dichiarano ladri e delinquenti; dopo un altro periodo non sono nemmeno più criminali, soltanto vigliacchi; e poi, dopo un altro periodo ancora c’è caso che la maggioranza degli italiani dichiarino con tranquillità che i partigiani non sono mai esistiti”. Mai però, come oggi, si aveva avuto l’ardire ideologico di ipotizzare di imporre per legge che partigiani e repubblichini fossero alla stessa stregua. Intendiamoci: da qualche parte ci sarà più d’uno che, nipote di un repubblichino, come me si chiama tale e quale suo nonno; e che come me non l’avrà neppure conosciuto perché caduto prima del 1945. Così come ci sarà una nonna rimasta vedova giovanissima. Il dolore umano di costoro è identico al nostro. E va parimenti rispettato. Sarebbe però oltremodo sbagliato dimenticare che uno, il partigiano, è morto per una causa giusta; l’altro per una nefasta. A questo proposito, l’argomento più semplice e convincente resta per me quello fornitoci da un grande padre della Repubblica scomparso lo scorso anno, Vittorio Foa. Ebbene lui, durante un dibattito televisivo che lo contrapponeva a un difensore d’ufficio della reputazione dei repubblichini, gli disse pressappoco le seguenti parole: “Guardi, se la guerra fosse stata vinta dalla parte per cui si battevano i militanti della Repubblica di Salò - regime fascista italiano e nazi-fascista tedesco - io e lei non saremmo qui a parlarne liberamente”. In un Paese con un minimo di dignità per la propria origine una proposta di legge siffatta non verrebbe neanche in mente a dei rappresentanti del popolo. Non essendo purtroppo il nostro caso, far sì che questa legge non venga approvata non è tanto un dovere nei confronti di quelli come mio nonno, quanto un dovere nei confronti della verità storica da lasciare ai nostri figli.




I BAMBINI DI SANT’ANNA

Una bambola di pezza
dorme su un prato
bagnato di rosso.
Le mani
che l’abbracciavano
ora giacciono fredde…
Altri visi
innocenti
hanno incontrato il dolore
e riposano assopiti.
Il silenzio e il fumo
avvolgono tetri
il borgo
un tempo
ridente e spensierato.
Una mano muta e tremante
raccoglie la bambola
perché racconti ad altri bambini
la storia di chi ha dormito sul prato
e gridi con forza
il disprezzo
per la guerra
che tutto distrugge
e spazza via.
Una bambola di pezza
dorme su un prato
bagnato di rosso.
Mentre tanti altri bambini dormono
tristi come fiori strappati
da mani crudeli e spietate.

Scuola elementare G. Matteotti- Gubbio- 2007




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